In attesa di una norma condivisa sul rischio di viaggio

Le responsabilità dei datori di lavoro in caso di contagio da Covid-19 hanno rinnovato l’attenzione verso i rischi per i lavoratori impegnati all’estero. Un argomento che deve diventare centrale per le aziende.

La pandemia di Covid-19 ha contribuito ad aumentare l’attenzione sul tema dei rischi di viaggio, un argomento verso il quale l’interesse delle imprese in Italia stava già crescendo. L’economia italiana è fortemente orientata all’esportazione e questo implica il ricorso frequente ai viaggi e alle permanenze all’estero da parte dei dipendenti, sia con funzioni commerciali sia tecniche. Nonostante questa vocazione, i rischi collegati alle trasferte hanno trovato una maggiore attenzione da parte delle imprese solo negli ultimi anni, in parallelo con la crescita delle responsabilità riconducibili alle normative sul “duty of care”.

Si tratta di un cambiamento a livello di cultura dell’impresa, che deve assumere l’attenzione alla salute a alla sicurezza dei lavoratori come tematiche di governance aziendale al pari dei rischi di mercato o finanziari.

L’impatto del Covid ha portato alla ribalta la questione della sicurezza dei dipendenti prendendo il sopravvento sulle tematiche di business. Secondo Anra, l’associazione italiana dei risk e insurance manager, l’emergenza sanitaria e il dibattito sull’adozione del passaporto vaccinale hanno contribuito a mettere in luce una situazione critica esistente da tempo: le aziende sono ancora troppo poco consapevoli dei potenziali impatti dei rischi di viaggio e, di conseguenza, si trovano impreparate di fronte ad essi, prive di strumenti che possano tutelare sia il dipendente all’estero, sia il datore di lavoro in patria, specialmente dal punto di vista giuridico.

“Di fronte al rischio di contagio le aziende si sono fortemente impegnate nel ricercare ed implementare protocolli di sicurezza, attraverso il sistema dei tamponi, dei test sierologici e delle quarantene, tuttavia una fascia di rischio è sempre rimasta”, osserva Alessandro De Felice, ex presidente di Anra. La messa in pratica di rigidi protocolli non ha tuttavia impedito che si verificassero casi di contagio, in particolare in settori, come quello logistico, che non hanno mai sospeso l’attività per poter garantire gli approvvigionamenti.

Le imprese hanno l’obbligo di tutelare i propri dipendenti, ma la carenza di una normativa specifica apre un ambito di incertezza che riguarda tutte le parti: il lavoratore, il datore di lavoro e il management, responsabili penalmente in caso di incidenti, e la magistratura, chiamata eventualmente ad esprimere il proprio giudizio.

Se da un lato le imprese non trovano nella normativa attuale indicazioni certe su come ridurre le problematiche ed evitare potenziali situazioni di rischio per il dipendente all’estero, dall’altro esiste ancora una carenza dal punto di vista della conoscenza dei rischi.

Il livello di consapevolezza delle aziende italiane in termini di gestione dei rischi di viaggio non è ancora adeguato per un Paese così fortemente votato all’export. Uno degli errori più diffusi è quello di mappare i rischi legati agli spostamenti focalizzandosi solamente sulla stabilità geopolitica di un Paese, sottostimando altri aspetti ugualmente importanti – e a volte più probabili – che possono incidere in termini di sicurezza personale.

Per valutare completamente i rischi a cui un lavoratore può essere esposto non è sufficiente pensare solo alle implicazioni legate al trasferimento, al rischio di terrorismo o di instabilità politica di un Paese, ma anche a tutti gli aspetti collegati alla vita quotidiana e alle usanze del luogo, che possono essere di natura normativa, religiosa, culturale.

“A presentare le lacune maggiori sono sicuramente le PMI: nella maggior parte dei casi manca una formazione specifica sul travel risk, e i budget ad esso destinati sono insufficienti o nulli. Mancano inoltre figure come quella del Security Officer, specializzato in questa tipologia di problematiche: inevitabilmente, questa lacuna espone le piccole e medie aziende a rischi che, al contrario, le organizzazioni più strutturate non presentano”, dichiara Mark Lowe, Risk Analyst e socio Anra.

In realtà la problematica non è isolata nei confini italiani, tanto che dall’esigenza comune ha preso avvio un tavolo di lavoro internazionale per la definizione di uno standard internazionale univoco sui rischi di viaggio, l’ISO31030 (Travel Risk Management), che vede un totale di 165 Paesi coinvolti.

“L’Italia è molto ben rappresentata in questo progetto, e questo ci rende molto orgogliosi poiché mostra la forte volontà del Paese di colmare quelle lacune che per lungo tempo l’hanno caratterizzato. Anra è coinvolta in prima persona nel gruppo di lavoro principale, composto da un totale di 12 persone di cui 3 italiane. Stiamo dando un forte impulso a questo standard per cercare di creare linee guida chiare, che possano essere applicate agevolmente e in accordo con il quadro legislativo nazionale. L’obiettivo è dare alle aziende gli strumenti per sviluppare agevolmente le procedure interne per gestire i rischi di viaggio”, sottolinea Mark Lowe, che fa parte del working group in qualità di rappresentante di Anra.

In attesa di questo strumento, per far fronte alla situazione contingente la strategia migliore è affidarsi il più possibile a una corretta e puntuale mappatura dei rischi. Per quanto riguarda la gestione dei rischi di viaggio collegati alla pandemia, è opportuno affidarsi agli strumenti che la scienza mette a disposizione: dai tamponi rapidi al passaporto vaccinale, quando e dove sarà disponibile. In questo senso, già oggi molte aziende sono in grado di organizzare in maniera rapida ed efficiente l’inoculazione del vaccino ai propri dipendenti su base volontaria, sia come forma di duty of care sia nel reciproco interesse di sicurezza.

Una soluzione che permette anche di tornare nel modo più rapido possibile a quella socialità del lavoro che manca ormai da troppo tempo.

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