Gli italiani credono nello Smart Working, alcune imprese un po’ meno…

ANRA e Aon hanno lanciato un Osservatorio a marzo 2020 con l’obiettivo di capire come lo Smart Working era (o non era) applicato prima della pandemia, cosa è successo durante il lock down, come sono cambiate le modalità lavorative nella fase 2, e quale futuro prevedono aziende e professionisti. Dall’analisi sono emersi approcci ed esperienze molto differenti a seconda dei settori di attività, delle dimensioni dell’azienda, dell’età, del genere: alcuni di questi risultati offrono spunti ed indicazioni preziose sulle aree chiave da considerare in futuro.

In Italia lo Smart Working è stato considerato per anni un tema spinoso, in parte a causa della difficoltà delle aziende nel valutare gli effetti sulle performance e sull’attività dei dipendenti, in parte perché ha numerose e complesse ricadute dal punto di vista organizzativo, infrastrutturale, normativo e, non da ultimo, culturale. L’emergenza Covid-19 non ha più permesso alle organizzazioni di procrastinare, e ha costretto improvvisamente milioni di italiani ad operare da remoto, esclusivamente prima – in fase di lock down, da marzo a maggio – e poi con modalità miste – con la progressiva riapertura, fino a all’inizio di ottobre. Questa forzata sperimentazione ha finalmente permesso di verificare gli effettivi vantaggi e svantaggi di nuove modalità lavorative, di smentire alcuni luoghi comuni, di capire quali aspetti sono fondamentali per impostare e maturare un’efficace transizione organizzativa e culturale.

Per delineare lo scenario generale, l’indagine ha rilevato come hanno lavorato gli italiani tra maggio e settembre, esclusi i periodi di vacanza. La percentuale più alta (42,2%) ha continuato ad operare esclusivamente da remoto: è quasi la metà di quanto registrato durante il lock down (79,8%), tuttavia è un numero significativo considerando che nel 2019 solo il 4,5% dei lavoratori italiani poteva usufruire di modalità agili. Nella fase 2 l’8,95% degli intervistati ha continuato a lavorare da casa ma ha condotto incontri di lavoro occasionali esterni alla sede dell’azienda; un terzo del campione (33,13%) ha avuto la possibilità di alternare presenza in ufficio e lavoro a distanza, mentre il restante 15,72% è tornato a lavorare esclusivamente in ufficio, come prima del Covid-19.

Per quanto riguarda le problematiche organizzative legate alle nuove modalità di lavoro, l’indagine che ANRA e Aon hanno condotto ad aprile aveva già rivelato come l’effettiva applicazione del lavoro a distanza avesse contribuito a “sfatare” alcuni falsi miti ad esso relativi – come il possibile minor rendimento dei dipendenti, ad esempio, in cui c’è stata anzi un’inversione di tendenza – e invece ha mostrato l’impatto inaspettato di questioni inizialmente sottovalutate. I dati di settembre non solo non hanno segnalato alcun cambiamento sostanziale, ma hanno anzi sottolineato il rafforzamento di queste tendenze. Mentre i problemi pratici e operativi sono stati risolti rapidamente in poche settimane, quelli relativi alle aree “soft” sono saliti nella classifica mese dopo mese. Nello specifico si registra un’ulteriore diminuzione delle problematiche di produttività, ora al 9 ° posto con il 10,28% mentre ad aprile erano al 6 ° con il 12,35%, e un dimezzamento delle aziende che segnalano difficoltà legate alla pianificazione, gestione e controllo delle attività, che nella precedente rilevazione erano al primo posto con il 32,7%, e ora sono al settimo con il 16,93%. I problemi nella gestione dei clienti e dei rapporti con terze parti diminuiscono dal 31,1% al 23,94% anche se rimangono ancora rilevanti posizionandosi al 3° posto, mentre quelli riguardanti le strumentazioni digitali (dispositivi, connettività) sono al 4 ° posto, rappresentando ancora un problema per il 23, 46% delle organizzazioni italiane (ad aprile erano il 28%). Ma il risultato forse più eclatante è quanto siano stati impattanti per le aziende gli aspetti intangibili, tutti in aumento rispetto ai risultati di aprile: i problemi di comunicazione interna ora sono al primo posto con il 27,09%, le difficoltà nella gestione dello stato d’animo e nel coinvolgimento dei dipendenti al secondo posto con 26 , 72% e più di un intervistato su cinque (22,97%) considera l’adattamento culturale alle nuove modalità di lavoro uno dei maggiori ostacoli.

La rivoluzione dello Smart Working avrà conseguenze importanti non solo sulla vita degli individui e delle imprese, ma sulla società nel suo complesso. Negli ultimi mesi sono stati analizzati e descritti gli impatti positivi di un’ampia estensione di modalità di lavoro alternative: dalla minore emissione di CO2 alla riduzione dell’inquinamento, una migliore viabilità nelle città, una riconsiderazione delle periferie e della loro funzione. Allo stesso tempo, come per ogni esperimento, si sono verificate anche implicazioni negative – e talvolta sono state utilizzate per incoraggiare il ritorno a metodi di lavoro pre-Covid19: alcuni servizi accessori (bar, ristoranti, ecc.) sono stati chiusi, il settore ristorativo e alberghiero sta vivendo una crisi enorme, soprattutto per quelle attività orientate alla clientela business, e molti centri cittadini stanno vivendo una parziale desertificazione. Nel bilanciamento tra pro e contro, oltre la metà degli italiani (56,23%) dichiara una visione ottimistica e ritiene che a prevalere saranno gli effetti positivi di questa rivoluzione Smart. Meno di uno su dieci (9,19%) è del parere contrario, mentre il restante 34,58% tende a dare una risposta equilibrata. Nel complesso, un risultato incoraggiante.

Quanto accaduto in questi mesi ha dimostrato quanto sia sempre più complicato fare previsioni affidabili per il futuro, poiché dipende dalla combinazione di una serie di fattori, il più impattante dei quali (la pandemia) è ancora in gran parte sconosciuto. L’indagine ha misurato il sentiment degli intervistati, chiedendo loro di prevedere come le aziende gestiranno le proprie risorse umane in un orizzonte temporale di 6 e 18 mesi. Considerando una prospettiva a breve termine, quasi tre quarti (73,15%) degli italiani ritiene che la maggior parte delle imprese opterà per alternare lavoro a distanza e presenza in sede. Decisamente inferiore è la percentuale di professionisti che affermano che più aziende sceglieranno di tornare alle modalità tradizionali (14,27%) o manterranno tutta la loro forza lavoro esclusivamente in remoto (12,58%). Passando ad un orizzonte di 18 mesi, ancora una volta la maggioranza (77,26%) tende a prevedere una situazione di equilibrio. C’è un leggero aumento nel numero di persone che pensano che la maggior parte delle aziende tornerà alle vecchie modalità (17,41%), e una forte riduzione degli intervistati che vedono un futuro solo di lavoro a distanza (5,34%). Ma da cosa dipenderanno queste due scelte? Secondo gli intervistati, la decisione di mantenere una prevalenza del Remote working dipenderà in larga misura dalla volontà di tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori (65,31%), risultato prevedibile considerando le incertezze legate al Covid19. Questo spiega anche la diminuzione degli intervistati che hanno scelto questa risposta (speriamo tutti di tornare alla vita normale entro 18 mesi). Le altre motivazioni registrano una percentuale più bassa, dal 15,31% legata al risparmio di spazi fisici al 7,14% attribuita all’aumento delle performance, fino al 3,06% relativo alla riduzione dell’assenteismo e al miglior benessere dei dipendenti. Passando alle ragioni che spingeranno le organizzazioni a tornare alle vecchie modalità di lavoro, gli intervistati mettono al primo posto la riluttanza culturale del top management (50%). Avrà un’influenza maggiore rispetto alle effettive esigenze dell’azienda (come nel caso di attività che non possono essere svolte a distanza), citate dal 26,92% del campione, all’incapacità di organizzare il lavoro per obiettivi (9,62%) e ai problemi legali e contrattuali (3,85%).

Nel complesso, gli italiani sembrano avere una visione decisamente ottimistica dei potenziali effetti della rivoluzione dello Smart Working sulle loro vite e sulla società nel suo insieme, ma ancora non si fidano fino in fondo della capacità delle aziende di accogliere il cambiamento.

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