Uno studio prevede l’aumento della delocalizzazione dello smart working ma mette in guardia sui rischi

Le aziende nelle economie sviluppate potrebbero cercare di trasferire le attività in “smart working” nei paesi emergenti, nel tentativo di ridurre i costi. Tuttavia, tale delocalizzazione virtuale comporta rischi politici e sociali che le imprese dovrebbero considerare, secondo un rapporto pubblicato di recente.

Il focus “Rischi e opportunità della delocalizzazione virtuale”, realizzato dall’assicuratore del credito francese Coface, definisce i driver per il trasferimento, i probabili numeri coinvolti e le posizioni più adatte tra i paesi emergenti.

La pandemia e la successiva introduzione su larga scala dello smart working hanno aperto nuove frontiere dell’organizzazione del lavoro per le imprese. Se la delocalizzazione è stata una caratteristica peculiare della manifattura negli ultimi decenni, l’esperienza attuale può portare più imprese a considerare l’esternalizzazione anche delle attività amministrative e commerciali.

Secondo gli attuali dati dell’UE, all’interno di paesi come Italia, Francia, Germania o Irlanda, la percentuale di attività che potrebbe essere svolta a distanza varia dal 35% al 40% di tutti i posti di lavoro, percentuale che si colloca invece tra il 40% e il 43% in Svezia e Benelux.

Inoltre, secondo i dati dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, nei paesi ad alto reddito il 27% degli impieghi potrebbe essere svolto a distanza, rispetto al 13% nei paesi in via di sviluppo.

Gli imprenditori sono indubbiamente attratti da una strategia come lo smart working, ma resta da verificare in quale modo e in quali ambiti potranno essere attivate modalità di lavoro da remoto con personale estero e residente oltre confine.

Dopo l’esperienza del trasferimento all’estero dei posti di lavoro nel settore manifatturiero, tale scelta potrebbe venire effettuata anche quando riguarda ruoli più qualificati ma che possono essere svolti virtualmente tramite la selezione di personale competente e adeguato.

L’interesse iniziale per la delocalizzazione virtuale può essere guidato dagli stessi obiettivi di contenimento dei costi. Tuttavia, mentre i lavori di produzione possono utilizzare una forza lavoro poco qualificata, il cosiddetto lavoro “intellettuale” richiede personale più selezionato.

Un conto è avere persone che sono cresciute all’interno dell’azienda, sono state formate per un ruolo specifico e conoscono i processi interni, come è avvenuto con lo smart working durante la pandemia. Ma cercare persone con le stesse competenze pur essendo completamente disconnesse dall’azienda è completamente diverso.

La globalizzazione ha portato a una certa uniformità nelle competenze legate all’utilizzo degli strumenti tecnologici ma permangono differenze in relazione alle abitudini di lavoro, ai contratti, ai processi operativi, alla conoscenza delle normative nazionali, delle procedure aziendali o dei protocolli di comunicazione con i clienti.

Il primo passo verso la delocalizzazione è stato fatto molti anni fa localizzando call center e servizi ICT all’estero. Il passo successivo comporterebbe procedure di base che sono molto più legate all’identità e alle competenze dell’azienda. La ricerca dei talenti è un argomento completamente diverso: lo smart working è un’opportunità in questi casi, poiché libera sia le imprese che i lavoratori dalla disponibilità di domanda e offerta in una determinata area.

Tale prospettiva può essere un’ulteriore chiave per lo sviluppo delle economie emergenti, che possono già offrire un significativo livello di formazione per quanto riguarda i loro lavoratori intellettuali.

In relazione ai rischi e alle opportunità della delocalizzazione virtuale, lo studio Coface stima che 160 milioni di posti di lavoro potrebbero essere spostati verso lo smart working nelle economie ad alto reddito, mentre 330 milioni di lavoratori potrebbero potenzialmente lavorare a distanza nelle economie a basso e medio reddito.

Spostare diverse attività verso il telelavoro può portare un reale vantaggio economico alle aziende nella riduzione del costo del lavoro. Ad esempio, se le aziende francesi delocalizzassero il 25% dei loro posti di lavoro in smart working, otterrebbero un risparmio del 7%, le imprese tedesche vedrebbero un risparmio fino al 6% e le imprese britanniche circa il 9%, secondo Coface.

Al fine di identificare i Paesi che possono meglio rispettare le caratteristiche richieste per delocalizzare attraverso lo smart working, Coface ha impostato un indicatore basato su quattro parametri chiave: capitale umano, competitività del costo del lavoro, infrastrutture digitali e contesto imprenditoriale.

Il confronto con le realtà dei paesi in via di sviluppo ha evidenziato il sud-est asiatico come un’area ad alto potenziale, soprattutto India e Indonesia. Allo stesso modo, Brasile e Polonia sono in pole position; anche Russia e Cina potrebbero entrare a far parte del club, nonostante il complesso rapporto politico tra questi due paesi e l’Occidente.

Tuttavia, alcune osservazioni geopolitiche e sociali dovrebbero essere prese in considerazione quando si considera una nuova forma di globalizzazione. Coface mette in luce come la delocalizzazione industriale abbia consentito la crescita di quei paesi che forniscono forza lavoro offshore, tanto che il baricentro dei consumi ora guarda verso l’Oriente.

Lo stesso potrebbe accadere nei paesi in via di sviluppo con la crescita di una nuova classe media, che opera da casa per conto di aziende occidentali. Al contrario, le difficoltà economiche in Occidente potrebbero aumentare. I lavoratori hanno già manifestato politicamente la propria opinione sui benefici relativi della globalizzazione e della delocalizzazione dei posti di lavoro, con conseguente instabilità politica, aumento delle tensioni sociali e rafforzamento dei partiti politici nazionalisti.

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