La pandemia ha colpito anche il lavoro

Nonostante gli interventi del governo a sostegno delle imprese e dell’occupazione – in primis il blocco dei licenziamenti, che è una vera “spada di Damocle” della ripresa post pandemia – nel 2020 l’occupazione in Italia si è ridotta di 456mila unità, segnando in un colpo solo un -2% rispetto al 2019. Un segnale critico ulteriore per il mercato del lavoro è dato dai 711mila nuovi inattivi, cioè persone in età lavorativa che lo scorso anno non lavoravano e non hanno cercato un’occupazione. Secondo uno studio svolto dall’istituto di indagine socio-economica Censis, lo scorso anno la ricerca di un nuovo lavoro – sia nel caso di persone che il lavoro l’hanno perso, sia nel caso di persone che si apprestavano a cercarlo per la prima volta o dopo un periodo di inattività – è stata scoraggiata da un contesto economico e sociale percepito come troppo complesso e difficoltoso, così indurre i non occupati a rimandare la ricerca a tempi migliori.

A parte poche eccezioni, l’impatto negativo sull’occupazione è stato registrato in tutti i settori, con imprese che hanno scelto di rimandare assunzioni programmate e bloccare temporaneamente il turn over programmato per ritiro dall’attività lavorativa (pensionamenti o scelte individuali).

L’anno del Covid ha condizionato fortemente anche il lavoro indipendente, con un calo complessivo di 158mila occupati, di cui 59mila lavoratori autonomi e 38mila liberi professionisti: il dato si inserisce in un trend quinquennale (2015-2020) in cui la riduzione del lavoro autonomo ha toccato le 500mila unità di contro a un aumento di 306mila posti di lavoro dipendente nello stesso periodo.

Non tutte le categorie sono state colpite allo stesso modo dalla perdita del lavoro. A pagare di più sono i segmenti deboli della popolazione: i giovani tra i 18 e i 29 anni (-6,4%) e le donne (-2,5%), mentre è cresciuta ben del 15,3% la percentuale di stranieri inattivi. Si tratta delle categorie in cui sono più frequenti il lavoro indipendente, le occupazioni saltuarie o i contratti a termine; persone che hanno risentito in particolare della chiusura delle attività ricettive e del calo del settore turistico, nonché della crisi delle società che lavoravano nel settore dei servizi alle imprese. Inoltre, in particolare tra gli stranieri si nasconde una quota di lavoro non dichiarato o «sommerso»: secondo lo studio del Censis, sono oltre un milione le famiglie italiane con occupati irregolari e per il 33% si tratta di stranieri.

C’è poi un altro aspetto che ha impattato sulle possibilità economiche delle famiglie in epoca di pandemia: tra gli occupati la riduzione del reddito ha riguardato 3 famiglie su 10.

Tra chi ha potuto continuare la propria attività durante la pandemia, il lavoro da remoto e lo smart working sono state soluzioni ampiamente diffuse. Dopo l’iniziale entusiasmo di poter lavorare senza uscire di casa e con tutti i comfort della propria abitazione, negli italiani è subentrata la stanchezza e la consapevolezza di alcuni fondamentali limiti che la soluzione comporta. In sintesi, il lavoro a distanza è ritenuto una valida alternativa in caso di emergenza, ma non la condizione migliore per un’esperienza lavorativa. L’indagine del Censis ha rilevato quali sono i maggiori rischi percepiti associati al lavoro da remoto: al primo posto la perdita della socialità garantita dal rapporto diretto e quotidiano con i colleghi (48,8%), in secondo luogo il fatto di dover lavorare in un contesto inadeguato in termini di disponibilità di spazio e di dotazioni (40,4%), al terzo posto il rischio di lavorare più a lungo dell’orario previsto e di non poter più controllare il confine tra lavoro e non lavoro (36,3%), un disagio a cui si aggiunge il costo dei consumi (elettricità, connessione web …) e di altri servizi che la postazione di lavoro richiede (29,7%), in subordine, ma certamente rilevanti nel lungo periodo, le minori opportunità di crescita professionale e di carriera (22,0%).

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