La Super League: come (non) gestire la comunicazione e i suoi rischi

Un esempio di errata valutazione e gestione poco efficace di un rischio reputazionale, ecco cosa rimane a pochi giorni dall’avvio del progetto della Super League, che nonostante i tentativi di recupero e riformazione sembra definitivamente naufragare. Il 19 aprile dodici club calcistici europei avevano annunciato congiuntamente un accordo per costituire una nuova competizione calcistica infrasettimanale. La Super League appunto, governata dai soci fondatori tra cui sei squadre inglesi (Liverpool, Manchester City, Manchester United, Chelsea, Arsenal e Tottenham), tre italiane (Juventus, Inter e Milan) e tre spagnole (Atletico Madrid, Barcellona e Real Madrid). Il comunicato spiegava che, oltre alle 12 squadre fondatrici, avrebbero partecipato annualmente al torneo altri tre club, e che la stagione inaugurale sarebbe iniziata appena possibile. Un annuncio lanciato di domenica sera, senza azioni di promozione (salvo uno scarno sito andato online in contemporanea), con pochi dettagli e mancanza di chiarezza in aspetti fondamentali, come le modalità di qualificazione per i posti “aperti”. Dal punto di vista comunicativo, una serie di scelte poco efficaci su cui molti si sono interrogati, considerando il livello degli attori coinvolti.

“In futuro, i Club Fondatori auspicano l’avvio di consultazioni con Uefa e Fifa al fine di lavorare insieme cooperando per il raggiungimento dei migliori risultati possibili per la nuova Lega e per il calcio nel suo complesso” proseguiva la nota diffusa dal team di progetto, di fatto dichiarando la totale estraneità e il mancato coinvolgimento di due entità che non solo sono responsabili dei maggiori tornei europei, ma soprattutto hanno un’autorevolezza e una forte credibilità sia tra i tifosi sia tra i club stessi. Un primo errore di valutazione, perché proprio Uefa e Fifa già nelle ore successive all’annuncio hanno fortemente criticato l’iniziativa. L’obiettivo della Super League voleva essere, nelle parole dei fondatori “in un momento in cui la pandemia globale ha accelerato l’instabilità dell’attuale modello economico del calcio europeo […] quello di migliorare la qualità e l’intensità delle attuali competizioni europee nel corso di ogni stagione, e di creare un formato che consenta ai top club e ai loro giocatori di affrontarsi regolarmente”.

Al di là di quanto dichiarato, è stato da subito evidente a tutti che il fattore economico era uno dei principali driver del progetto: secondo diverse stime avrebbe garantito alle squadre partecipanti – in effettiva difficoltà economica a causa della pandemia – introiti per circa 4 miliardi di euro l’anno tra diritti tv e sponsorizzazioni, quasi il doppio rispetto alla Champions League. Poco a che fare dunque con la volontà di valorizzare il calcio nel suo essere sport e spettacolo, obiettivi minimamente menzionati nella comunicazione del lancio. La conseguenza è che sono stati immediati gli attacchi di tifosi, opinionisti, allenatori e calciatori di tutta Europa che hanno accusato le 12 squadre di aver proposto un progetto guidato da ragioni economiche, che avrebbe distrutto i tornei domestici e inficiato l’integrità dello sport (dal momento che la partecipazione, a differenza di quanto avviene negli altri circuiti europei, sarebbe stata “di diritto” e non su qualificazione).

Le critiche hanno avuto una risonanza mediatica immediata e capillare, con un impatto negativo non solo sulla reputazione dei club coinvolti ma anche – per le due squadre quotate in borsa – sugli aspetti finanziari. La Juventus, che all’annuncio del progetto aveva visto passare il valore delle proprie azioni da 0,77 a 0.91, il 20 aprile ha chiuso con – 12,35% (azioni a 0.76). Il titolo del Manchester United, il cui valore azionario era passato in poche ore da 16 a 17,8 dollari, è ridisceso a 16,1.

Già la sera del 20 aprile i sei club inglesi hanno annunciato il ritiro dall’iniziativa, ponendo ulteriori dubbi sulla gestione comunicativa del progetto dal momento che Florentino Perez, presidente del Real Madrid e della Super League, aveva detto in diretta televisiva che i dodici club fondatori erano uniti da un accordo vincolante e che nessuno si sarebbe potuto tirare indietro. Il giorno dopo anche Inter e Atletico Madrid hanno compiuto la stessa scelta.

A tal punto era diventato evidente che il progetto, perlomeno nella sua configurazione iniziale, era destinato a naufragare. E proprio qui Juventus e Manchester United hanno dimostrato due diversi modi di gestire quello che era un rischio reputazionale ormai concretizzatosi, ma ancora in corso e quindi influenzabile. Il Manchester United ha dichiarato “Il nostro club non parteciperà alla Super League: abbiamo attentamente ascoltato le reazioni dei nostri fan, del governo britannico e degli stakeholder. Continueremo ad impegnarci e a lavorare con gli altri attori della comunità calcistica per individuare soluzioni sostenibili alle sfide a lungo termine del nostro sport”. Una dichiarazione immediata, chiara, univoca, che ha portato tra l’altro ad un ulteriore rialzo del titolo in borsa (oggi le azioni si attestano sui 16,4 dollari). Tutt’altra scelta quella compiuta dalla Juventus, il cui Presidente Andrea Agnelli continua a difendere il progetto della Super League nonostante le critiche che arrivano non solo dal mondo del calcio italiano, ma anche da alcune fonti interne alla squadra stessa. Una situazione che lascia aperta e sospesa la situazione di crisi scatenata dalla vicenda, e che ha portato la società a un ulteriore ribasso in borsa (le azioni sono arrivate oggi a 0,74).

La vicenda della Super League rimane aperta, ma sicuramente il suo debutto non può essere considerato come un esempio di buona gestione della comunicazione e dei suoi rischi.

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